venerdì 29 marzo 2013

Pozzanghere, elefanti e il fascino perverso del plumcake

Riflettevo domenica scorsa, in quella giornata piovosa e grigia piena di pozzanghere e vento, sulla condizione mia personalissima di disoccupazione.
Perché in quella giornata grigia e piovosa di pozzanghere e vento l'Amica di Arbizzano ha avuto la brillante idea di portarci al circo.
Ora, si sa che il circo, nonostante sia di per sé, in linea generale diciamo, un divertimento, il più delle volte mette tristezza. E questo non soltanto perché quando si decide di andare al circo succede invariabilmente che piove e tira vento.
È che il circo, un tendone a righe bianche e blu con in cima le bandiere che sventolano e le lucine che si accendono a intermittenza, nel mezzo di una distesa di terra dove non cresce nemmanco la gramigna, circondato da edifici abbandonati tutti ex-qualcosa, ex macello, ex ghiacciaia, ex fabbrica, ex mercato ortofrutticolo; il circo, con i suoi camper grandi come appartamenti, i fili elettrici che attraversano parcheggi e si perdono nel niente, le insegne colorate, i manifesti roboanti; con i bigliettai vestiti di rosso vagamente sbiadito, con le ballerine che sorridono e gli acrobati in tutine attillate che sembrano volare appesi a un filo, il circo, dicevo, ha un che di anacronistico.

Ora che il divertimento è dietro alla porta, e anzi talvolta anche davanti a bussare prima ancora che tu lo cerchi, sembra strano che ci sia ancora chi gira di città in città, con il suo baule di piume, ciglia finte e bottoni dorati, la scatola dei trucchi e il gilet di lustrini, e quasi ti aspetti di sentir gridare Venghino! Venghino! Più gente entra più bestie si vedono! dalla bocca di un imbonitore rugoso e imbronciato come un elefante col baldacchino.
Succede tuttavia che il circo possa esercitare un fascino perverso, quello stesso fascino che ti prende di fronte a certe torte confezionate, quei plumcake panna e cacao che hanno un aspetto orribile, un profumo tutt'altro che invitante ma che alla fine ti ritrovi a mangiare tuo malgrado con un certo gusto quasi stupefatto, riuscendo anche inaspettatamente a non soffocarti con le briciole e a pensare che, in fondo, hai mangiato anche di peggio.
Così finisce che in quel subdolo senso di tristezza si insinua la stessa curiosa allegria che sembra pervadere tutti gli astanti. Perché sotto gli ombrelli gocciolanti, sotto i cappucci bordati di pelo, sotto le pensiline davanti al tendone, la gente ride, chiacchiera, è (forse non solo apparentemente) felice e incurante delle macchie di fango indelebile sulle scarpe di camoscio blu.
E quindi ti viene fatto di pensare, mentre aspetti che l'AmicoArchitetto prenda i biglietti dalle mani grassocce della bigliettaia bionda dietro il vetro, che forse la vita da artista giramondo potrebbe avere una certa attrattiva, e che il tempo poi non sarà sempre così grigio e piovoso come quando al circo ci vai in una domenica pomeriggio del marzo più freddo degli ultimi cinquant'anni.
Così, mentre entri nel tendone rosso e cerchi posto sulle panche imbottite, provi a immaginarti con la divisa rossa e oro a distribuire sacchetti di bonbon e patatine.
E, sgranocchiando pensierosa un paio di popcorn, guardi il domatore che stropiccia il muso della tigre, e pensi che i gatti ti son sempre piaciuti, e quei gatti lì così grossi sembrano morbidi come peluches e anche piuttosto mansueti, e vagheggi una vita da giocoliere in bilico su una scala o da equilibrista sul trapezio appeso nel niente. E leccandoti dita appiccicose di zucchero filato pensi che anche dondolarsi a testa in giù legata a un nastro rosso potrebbe avere un certo fascino, anche se non quanto girare in moto dentro una sfera di metallo o cavalcare in piedi un cavallo bianco, o stare seduta sulle zanne di un elefante vestita da odalisca.

Ma forse sarebbe più bello cavalcare un cavallo bianco in riva al mare, o girare in moto sulle curve delle Dolomiti, la verità.
E anche con gli elefanti, alla fine sono sicura che mi farebbero cominciare dalla gavetta, e la gavetta, è risaputo, parte dallo spalamerda. E se non sapete quanta merda può produrre un pachiderma, provate ad andare al circo, un pomeriggio piovoso pieno di pozzanghere e vento della primavera più fredda dell'ultimo mezzo secolo. 

Potreste alla fine pensare, come è successo alla Wonder di fronte alla montagna di cacca prodotta da un solo esemplare di elefante di taglia media, che in fondo, in certi casi particolari e nello specifico nel suo caso particolare, essere disoccupata è un po' come trovarsi sulla tavola della colazione quel plumcake dal fascino perverso, che sai che non è buono ma che mangi lo stesso, a tratti con un certo gusto, pensando che, in fondo, c'è anche di peggio.

lunedì 18 marzo 2013

Il pacchetto dove lo metto

Lo sapevo.
Mica si può dire che fossi impreparata.
Lo sapevo da oltre tre mesi, in effetti.
Però un conto è saperlo, un conto è vederselo davanti, un container di sei metri per tre rimorchiato da una motrice rossa che occupa tutta la strada, e anche un po' di marciapiede.
E poi non te l'aspetti che sia tutto pieno. Voglio dire, 76 scatoloni, pensavo, non occupano mica tutto quel volume lì. Pensavo.
Il cielo, bontà sua, sabato ci ha graziati, e non ha piovuto. Però comunque scaricare un container non è mica una bazzecola. Ho rivalutato il ruolo degli scaricatori di porto, e sono piuttosto incline anche a perdonargli il linguaggio notoriamente colorito.

Il contenuto del container è stato ammucchiato nel garage del Suocero e ne occupa circa un sesto, il che la dice lunga sulle dimensioni del garage del Suocero.
Epperò, nonostante le dimensioni del garage, tutta quella roba prima o poi dobbiamo portarcela in casa.
- Da dove cominciamo?
- Dai giochi delle bambine, cosa dici?
- Sei matta Cognata Bionda? Cominciamo da qualcosa di più basico.
- Tipo?
- Tipo i libri. Dove stanno i libri, fammi vedere...
- Ma tu, Wonder, non ce l'hai una lista degli scatoloni?
- Eccome no. Eccola qui. Tre pagine di roba. In cinese però. Lo sai leggere tu il cinese? Io pochino. Questo carattere sì, è , si dice shu, vuol dire libro. Quelli fondamentali li ho memorizzati. Ce ne sono tre, di pacchi pieni di libri. Vanno subito in macchina, va'. Il terzo dov'è? Mah, sepolto.
- Allora prendiamo questo, che c'è nel 54?
- 卫生用. Facciamo prima ad aprirli tutti...

Il fatto è che dopo che hai scaricato 76 pacchi dal container spostandoli poi dal marciapiede al garage; dopo che hai scelto a caso cinque di quei pacchi, li hai messi in macchina e li hai portati a casa, su per tre rampe di scale; dopo che hai scartato da mille mila strati di carta le palle di ceramica incredibilmente intatte e quadri e suppellettili; dopo che hai riempito il tavolo della cucina di tazze e bicchieri e pentole e ciotole che non hai idea di dove mettere (e aver contemplato mentalmente la soluzione peraltro definitiva di romperle una per una, incerta se mandare in mille pezzi quelle appena arrivate o quelle che hai negli armadi da quasi un quindicennio, e aver constatato di tua mano la facilità di tale radicale determinazione); dopo che hai sommerso il bagno di asciugamani e accappatoi e cuscini che sanno di muffa e che continuano a sapere di muffa anche dopo che li hai lavati sciacquati e centrifugati, e scoperto non senza un certo sconforto che la muffa è tra le macchie più difficili da eliminare anche per le più esperte massaie e che non esiste sul mercato un prodotto specifico; dopo che hai sistemato i libri impilandoli negli angoli dietro le porte e addosso alle librerie già piene; dopo che ti sei resa conto in modo conclamato che hai bisogno di un'altra casa (nel senso di una casa in più); ecco, dopo senti una stanchezza così pesante che sembra che quel container ti sia passato sopra, compreso di motrice rossa, lasciandoti con tutte le ossa rotte e l'impressione che, per tenersi in forma, scaricare scatoloni sia molto più efficace che andare a correre.

Però poi, quando trovi in mezzo alle pentole la teiera che l'Amica Francese ti ha regalato al tuo compleanno, tra le ciotole di porcellana bianca il tè che Tamao ti ha portato dal Giappone e tra il dizionario di cinese e La diva Julia il quadretto, regalo dell'amica Gio, dove le tue bambine sorridono in compagnia delle amichette del cuore rimaste a Shanghai, ti commuovi un po', e quasi ti dimentichi che ti restano ancora 71 scatoloni. 
Molti dei quali, per altro, evidentemente aggrediti dalla muffa.

martedì 12 marzo 2013

Precarietà della mezza stagione

Sta finendo l'inverno. Almeno così dicono.
In effetti le giornate si allungano, non fa più buio alle cinque del pomeriggio e le temperature sono decenti, e in definitiva mangio meno cioccolata, il che tra tutti costituisce senza ombra di dubbio l'indicatore più attendibile.
Siamo nel mezzo della mezza stagione. Chi ha detto che non esistono più le mezze stagioni non va a spasso in marzo da un bel po'.
E nel mezzo delle mezze stagioni succede un fatto. Succede che, quanto ad abbigliamento, sei sempre inevitabilmente inappropriata.

Ti alzi alla mattina, guardi fuori il sole pallido che a stento scaccia la nebbiolina che avvolge le primule, rabbrividisci nella sottoveste e decidi di infilarti i jeans e quella maglia di lana che ti piace tanto, calda come l'abbraccio dell'amore tuo, e poi ti ritrovi a mezzogiorno a sudare come un cavallo mentre cammini velocemente verso la scuola in ritardo per la recita.
Capita che, dopo giorni di pioggia e nuvole, guardando fuori vedi il sole nel cielo blu e decidi che è ora di mettere via il piumino e indossare quel cappottino di lana fashion che non metti da tanto, e finisci per ficcarti in un bar a bere un caffè e a scaldarti un po' da quel vento freddo che si è infilato dappertutto.

Per non parlare della pioggia, quella pioggerella leggera che quasi non si vede ma che bagna fino alle mutande e riduce la capigliatura a un ammasso crespo e informe, perché l'ombrello non ce l'hai, non lo porti mai ché tanto poi lo dimentichi in giro e se per caso l'hai messo nella borsa ti dimentichi di avercelo messo. E comunque in genere nella borsa non lo metti, ché un ombrello, se anche è un ombrellino pieghevole sfigato, pesa un accidenti, e nella borsa hai già un portamonete con due chili di spiccioli (che messi insieme ti ci puoi comprare un chilo di brasato, o uno smalto Chanel), un libro, un portafoglio vuoto ma incredibilmente ponderoso, le chiavi di casa che neanche san Pietro, un paio di calze antiscivolo del Gatto rimasuglio dell'ultima festina, quegli orecchini che ti si impigliavano dappertutto, un rossetto, uno specchietto, fazzoletti, scontrini sparsi, il cellulare, una bottiglietta d'acqua, dei cioccolatini con dentro il liquore e la ciliegia (perché l'inverno sarà anche quasi finito ma quando cammini da sola nell'aria fredda che scompiglia i capelli ci vuole qualcosa che riempia il cuore) e gli occhiali da sole dentro una ingombrantissima custodia rigida.
E insomma l'ombrello non ci sta, nella borsa.

Ma il bello delle passeggiate nel mezzo delle mezze stagioni è guardare la varia umanità che passeggia come te.
Perché in effetti essere inoccupata comporta l'indubbio vantaggio di poter disporre di una discreta quantità di tempo libero, il che consente di rendersi conto che c'è in giro un sacco di gente che non fa niente, motivo per cui in un romanzo dell'ottocento si definirebbe in modo piuttosto appropriato nullafacente, ma che adesso ho l'impressione che sia per lo più disoccupata.
Oddio. Disoccupata. Non è mica chic da dire, disoccupata. Che orrore.
Eppure personalmente non posso nemmeno fregiarmi del pur vituperato titolo di precaria, in quanto, sebbene mi senta in equilibrio abbastanza instabile, la mia condizione promette di essere piuttosto definitiva, la verità.

Comunque le passeggiate in centro, dove si raduna un sacco di gente che ha, diciamo così, del tempo libero, sono illuminanti circa la discrezionalità della percezione delle temperature.
C'è per esempio una signora che ha deciso che ancora non è tempo di smettere la pelliccia, però la tiene slacciata e ha un foulard che pende dal collo. Il turista evidentemente nordico sfoggia bicipiti lattei e una pancetta prominente sotto la maglietta estiva, però fa effettivamente un po' pena e sono sicura che se san Francesco fosse ancora vivo non esiterebbe a regalargli il suo mantello. Un gruppetto di quindicenni semianoressiche si pavoneggia in minigonne inguinali e ballerine rosa ma anche se hanno tutte le gambe viola e le labbra blu non ammetteranno mai di avere un freddo della madonna, e continueranno a scuotere i lunghi capelli, a camminare tenendosi strette e a ridere a ogni passo.

Il bancario senza cappotto cammina leggiadro nel completo scuro, ché tanto arriva solo fino al caffè all'angolo; il barista del caffè all'angolo è in maniche di camicia, perché affacendato a distribuire caffè a destra e a manca. Il commercialista a destra indossa un cappotto di taglio classico e l'ombrello legato alla valigetta, l'architetto a manca una giacchetta di velluto a coste e la sciarpa annodata in modo sapientemente casuale; la sciura platinata ingioiellata come la Madonna della Visitazione ostenta una mantellina di volpe siberiana che copre appena la camicetta di voile, il nerd ha l'aria torva dietro il collo rialzato del giubbotto imbottito e lo scooterista si aggira presso il bancone bardato come un palombaro, con il casco appeso al braccio.

Insomma, c'è un sacco di gente che vive con indifferenza la precarietà della mezza stagione, e fa un po' come se non esistesse, ancora restia a lasciar andare l'inverno nonostante la temperatura primaverile di mezzodì o già proiettata verso il caldo dell'estate a dispetto dell'aria frizzante e della nebbia mattutina.
E io, pensandoci bene, mi sento un po' come una mezza stagione, che ci sono dei giorni in cui la luce è più intensa e tutto sembra roseo, e poi all'improvviso l'aria si fa fredda, il cielo si rannuvola e piove tre giorni di seguito.
Confido nel fatto che, a ben vedere, le mezze stagioni son lunatiche, nervose, matte e confuse, ma hanno il vantaggio che non annoiano, e durano così poco che quasi non te n'accorgi.