sabato 12 aprile 2014

Improbabile fine e fantastica della solitudine del sabato

La mattina del 31 marzo scorso stavo facendo la mia consueta corsa sul lungofiume. Era una bella mattina di primavera, l'aria limpida era già calda e all'orizzonte si vedevano le montagne ancora innevate.
Ero solo, come ogni maledetto sabato mattina.
Non che gli altri giorni fosse diverso, ma gli altri giorni non andavo a correre. Quando corri da solo senti di essere solo più di quando prendi l'autobus, o fai la spesa, o lavori nel loculo che ti hanno assegnato come ufficio, dove passi la giornata a inserire codici e nomi. Data entry, lo chiamano, ma usare l'inglese non rende l'operazione meno monotona e frustrante.
C'è solo un momento in cui sento di essere solo più di quando corro: quando ceno. La cena silenziosa in quella cucina triste ad ascoltare il rumore delle posate, il piatto sulla tavola di formica, due sedie impagliate. Due sedie, sì, ma a che mi servono due sedie, una è sempre vuota.

Corro tutti i sabati, alla mattina. Forse i gesti abitudinari mi danno sicurezza.
Anche quel sabato mattina correvo. Avevo percorso circa dodici chilometri a un ritmo piuttosto blando, ero già sulla strada di casa ma per arrivare mi mancavano ancora tre chilometri buoni. Sentivo le gambe pesanti, e non avevo più fiato.
Per un momento pensai che sarebbe stato meglio se mi fossi fermato un attimo, giusto il tempo di riprendermi un po', normalizzare il battito cardiaco, sciogliere i muscoli, ma non lo feci.
Continuai a correre, fino a quando non raggiunsi un tratto costeggiato da alberi alti. Lì, forse per colpa dell'improvviso cambio di luce, la vista si annebbiò. La testa prese a girare, e cominciai a vedere tutto bianco. Mi mancava l'aria.
Le gambe non mi reggevano più, inciampai e fui costretto a fermarmi.
Sentii una fitta al cuore, un dolore secco.

Non so esattamente cosa accadde nei pochi minuti successivi, ma quando riaprii gli occhi ero disteso sul sentiero sabbioso, a meno di un metro dal fiume. L'acqua correva veloce, potevo vederne i piccoli vortici quasi costanti, e me ne sentii visceralmente attratto.
Certo, che non fossi felice della mia vita non era un fatto particolarmente degno di nota. È pieno il mondo di gente insoddisfatta, delusa, senza prospettive, che però non prova l'istinto di buttarsi nel fiume in una limpida mattina di marzo. Tanto meno di sabato.
Di domenica, forse, ma di sabato...

Avevo sete, la bocca secca. Feci per avvicinarmi alla riva, al verde dell'acqua, al gorgoglio delle onde, come se quell'acqua di fiume potesse dissetarmi, o annullarmi, ma il corpo non si mosse. Avevo la testa appoggiata di lato, l'occhio destro schiacciato per terra e l'altro a guardare l'erba alta, il cielo ostinatamente azzurro. Provai a sollevarmi sulle braccia ma non avevo più forza. Provai ancora a muovermi ma era come se fossi legato, riuscii a spostarmi solo di pochi centimetri. Cominciai a provare un leggero panico. Le tempie pulsavano, mi sentivo soffocare e un grido mi si smorzò nella gola. Con un notevole sforzo alzai un po' la testa, abbastanza per vedere qualcuno che si avvicinava.

Un vecchio.
Era evidentemente un pescatore, di quelli che vanno a pescare in mezzo al fiume, con gli stivali a scafandro e la lenza in una mano, e nell'altra un secchio verde che dondolava piano, grande abbastanza da farci stare dei pesci di fiume. 

Sono salvo, pensai.
Il mio corpo lucido di sudore tremò violentemente e poi ebbe un sussulto.
Quando mi vide, il vecchio posò il secchio e la lenza, si fermò a fissarmi per pochi istanti, schermando il sole con la mano, e poi mi sollevò.
Mi scrutò ancora, e con un sorriso sbilenco mi buttò nel secchio, insieme agli altri pesci.

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Questo racconto partecipa all'EDS La balena non è un pesce insieme a:


venerdì 11 aprile 2014

Cinque regole infallibili per togliere dal muro le tracce di vomito, più un consiglio di psicologia spicciola

Regola numero 1
Pulite subito. Non fatevi prendere dall'indolenza notturna pensando Vabbè che succede se aspetto domani mattina, in fondo sono le tre di notte. Questo verrebbe a delinearsi come l'errore più grave. Il vomito secco è piuttosto ostinato, s'attacca, e in più ha questo difetto che è vagamente corrosivo. Saranno gli acidi, i succhi gastrici, tutta roba naturale, eh, ma sul parquet lasciano il segno.

Regola numero 2
Non fatevi prendere dal disgusto vomitando pure voi. Pensate che è tutta roba santa, come altre manifestazioni corporali dei bambini. Mantenete un dignitoso distacco turandovi eventualmente il naso con due dita. 

Consiglio per la salute psicologica della fanciulla
Sorridete alla bambina che vi guarda con aria colpevole e rassicuratela con parole dolci, tipo Non preoccuparti amore può capitare stai tranquilla adesso la mamma pulisce e tutto torna come prima tu vai pure a dormire nel mio letto
Prima di spedirla tra le vostre candide coltri, però, assicuratevi che si sia lavata le mani, la faccia e anche i piedi.

Regola numero 3
Mentre pulite, potete anche pensare che quei pezzi di roba attaccata al muro costituiscono in buona parte la cena che avete amorevolmente preparato la sera prima e che se vostra figlia ne ha mangiato senza grande entusiasmo non era tutta colpa della cena, ma non riflettete sugli avanzi nel frigo, non è il momento adatto.

Regola numero 4
Lasciate passare un giorno. Poi prendete uno straccio, la candeggina spray che usate normalmente per togliere le tracce di muffa (non dite che non avete mai avuto tracce di muffa, ogni casa che si rispetti ne ha, guardate bene) e alternate spruzzi a passate con lo straccio, senza strofinare troppo altrimenti oltre al vomito viene via pure il colore.

Regola numero 5
Aspettate che il muro si asciughi e verificate con stupore che avete tolto ogni traccia di vomito.
Allontanatevi e guardate l'effetto. 
A questo punto ridipingetelo.
Una bella mano di bianco, et voilà, pulito come prima.

mercoledì 2 aprile 2014

Lamento di una giovane morta

Sono morta.
Devo averlo pensato, mentre mi trasportano su una barella improvvisata, mentre continuo a svenire e al risveglio vedo solo facce sconosciute, chine su di me, circondate da un alone sfocato. Non provo dolore, solo tanta stanchezza, mi si chiudono gli occhi, e sogno. Sogno una barca che naviga nel cielo azzurro, la vela bianchissima spiegata al vento, e niente intorno. Sole e cielo, e nient’altro. Forse c’è anche il mare, a pensarci bene, ma si confonde con il cielo, è dello stesso colore azzurro. Appena apro gli occhi, vedo figure affaccendarsi intorno a me, ma è come se stessi guardando un film, non sento le voci e l’immagine è sbiadita, come avvolta in una nebbia.

Nella gamba sinistra si apre uno squarcio, ma non sanguina, stranamente; la carne viva e l’osso del femore hanno uno strano colore, diverso da quello che mi sarei aspettata. Sembra la pancia squarciata di un pesce, già ripulita da mani esperte, con la lisca spinale in vista e qualche brandello di interiora ancora attaccato. Ha anche uno strano odore, non da pesce, comunque.

In realtà non avevo mai pensato al colore della carne viva, e al colore di un femore. Non del mio, almeno. Certo, carne al sangue ne ho mangiata, ma non è la stessa cosa. Lì il sangue non scorre, e poi non ci pensi che è proprio il sangue che faceva vivere la bestia che ti stai mangiando, che scorreva nelle sue vene, che faceva funzionare il suo corpo. Qui invece di sangue ce n’è. Rosso, di un rosso così vivo che sembra smalto, tipo Chanel rouge fatal. Da dove arrivi, non ne ho la minima idea, ma non è cosa che mi preoccupi granché. Ce n’è anche una sacca piena, è appesa da qualche parte sopra la mia testa, ma quello non è rosso lacca, sembra più scuro, più compatto, Chanel rouge noir, per dire.

Svengo ancora. Una grossa signora con un camice bianco mi schiaffeggia con sistematica metodicità, e con una certa violenza, anche, ne sento il rumore sul viso come fosse la coda del pesce che sbatte sul fondo della barca, e ricordo di aver pensato che avrebbe potuto essere un po’ più gentile, visto il mio stato, ma intanto non riesco a tenere gli occhi aperti, e mi sento stanca, vorrei solo riaddormentarmi e tornare a sognare la barca, rivedere i miei piedi nudi con le unghie laccate inquadrati dall'alto vicino a quel pesce appena pescato, che sbatte la coda sul fondo della barca.

Sono morta. Dev’essere così, perché non sento niente quando mi infilano l’ago nel braccio, e non distinguo il viso degli inservienti che mi spostano dalla barella al tavolo operatorio. So che sono in sala operatoria per via di quella luce forte, che penetra attraverso le palpebre chiuse, o forse ho aperto gli occhi quel tanto che basta a farmi intravedere un braccio di metallo che termina con quattro fasci luminosi. Non vedo nemmeno il medico, che arriva circondato dagli assistenti, ne sento solo la voce, ma lontana, come se fosse in un’altra stanza, e non capisco quello che dice, mentre una mano si avvicina al mio volto e mi preme una mascherina sulla bocca e sul naso. Cerco ancora di aprire gli occhi, ma è uno sforzo immenso, e tutto sommato non è che ne abbia proprio voglia. È solo un tentativo doveroso, per così dire.

Ora sono distesa su un lenzuolo bianco, in una stanza dalle pareti bianche che non somiglia per niente alla vela di una barca, il volto bianco come cera. Sono morta.

Finalmente, mi viene da dire, ma in realtà non provo più niente.

Non sento più dolore, né speranza, allegria, desiderio, tristezza, paura. Niente di niente, nemmeno indifferenza. La cosa non cambierà, lo so.