lunedì 5 settembre 2016

Due cose per cui la Cina è veramente avanti

Lo conoscete Uber, vero?, questo sistema di taxi privati che puoi prenotare quando esci da un locale e i taxi non ci sono o se ci sono non si fermano, e quindi o te la fai a piedi, o resti in piedi al bordo della strada finché non passa un taxi o una mototaxi, o ti scarichi Uber, che ti mostra quali macchine sono a disposizione lì vicino e paghi con carta di credito e puoi anche dare un giudizio se t'è piaciuto o no, così quando scegli il taxi hai anche il ranking, una stella due stelle quattro stelle a seconda che guidi bene, che non ti faccia fare il giro del globo, che sia pulito e via dicendo. 
Già questo mi era sembrata un'app intelligente.
Ma.
Oggi ho scoperto che c’è questa applicazione che si chiama Mobike, cioè non è che l’ho proprio scoperta oggi, ne avevo già sentito parlare prima delle vacanze ma oggi me la sono scaricata. 

Mobike è un sistema veramente innovativo di bike sharing, che mette a disposizione le bici a un prezzo praticamente irrisorio, 1yuan ogni mezz’ora, cioè 13 centesimi, e per sbloccarle basta fare la scansione del QRcode, il lucchetto si apre e tu usi la bici finché ti pare, poi la lasci dove ti pare (cioè non proprio dove ti pare: non dentro casa tua per esempio) e la chiudi con il lucchetto, e in quel momento finisce il tempo di utilizzo. L’applicazione ti mostra le bici più vicine a te, quindi non è che devi vagare a caso alla ricerca delle due ruote arancioni. 

C’è anche un sistema per guadagnare punti (o perderli). Per esempio, ogni volta che si utilizza la bici si ottiene 1 punto, 1 punto se si comunica la rottura della bici o un parcheggio scorretto, 2 punti invitando un amico o accogliendo l’invito di un amico. I comportamenti scorretti invece vengono puniti, per esempio se si parcheggia all’interno di un’area privata -20 punti, se parcheggi erroneamente per due volte di seguito l’account viene congelato per una settimana. Usare un lucchetto privato annulla tutti i punti, così come dimenticare di chiudere la bici che va persa o trasportare illegalmente la bici. Abbandonare la bici quando intercettati dalla polizia -50 punti. Eh, sono cose.

Aperta parentesi 
Capisco che questo sistema sia valido nei Paesi civili, dove ci sono in tutte le strade posti dove parcheggiare le bici, per esempio, o dove le strade a due corsie hanno uno spazio dedicato alle due ruote, oppure marciapiedi larghi apposta per farci andare le bici, o dove non ti facciano la multa perché percorri in senso contrario l'unica strada che ti consente di andare verso il centro e contemporaneamente avere una discreta possibilità di rimanere vivo. Che poi se mi succedesse, di prendere la multa dico, io costringerei il sindaco a percorrere quella strada là in bicicletta, e anche il vigile che mi ha dato la multa, giusto per fargli capire come ci si sente, su due ruote, a essere ligi alle regole, e gli direi di mandarci anche suo figlio a scuola, in bici su quella strada là, con la cartella di venti chili che ballonzola sul fondoschiena, tutti i giorni alle sette e mezza, autunno inverno primavera e un pochino di estate. 
Ci scommetto le scarpe che ci va col SUV.
Chiusa parentesi

Al momento dell’iscrizione viene richiesto un deposito di 299yuan, cioè 40 euro, da cui poi vengono scalati i soldi del noleggio, e che comunque è rimborsabile. Come paghi? Ma con WeChat! 

WeChat è questa applicazione chenonpuoipiufarneameno, una crasi di whatsapp e facebook, con cui fai davvero tutto qui in Cina, dagli appuntamenti di lavoro alle chat delle mamme della scuola. Ci paghi il ristorante o i musei o la spesa al super e anche in internet e perfino i debiti agli amici, e senza commissioni per altro, e fai pure vedere a chi vuoi quanto sei bello/fico/interessante come su fb, con l’opzione però che se non ti vuoi sorbire i post di qualcuno semplicemente dici al sistema di nasconderli, come puoi decidere di nascondere i tuoi a qualcuno che preferisci non li veda.
Io per esempio ho nascosto i contatti che scrivono solo in cinese, che tanto non capisco una mazza.

In più, wechat non dipende dal numero di telefono. Cioè, se vuoi avere il contatto di una persona senza che quella sappia il tuo numero, voilà (addio stalking). Comunque puoi anche telefonare, videochiamare (addio skype), mandare allegati come con la posta elettronica. No, i tortellini non li fa. Però te li puoi ordinare via wechat al più vicino ristorante italiano.


venerdì 26 agosto 2016

L'importanza del controllo degli sfinteri in una società nappy free

Lo sapete perché i cinesi non usano i pannolini usa e getta? 
Non lo so neppure io, ma ipotizzo che sia principalmente una questione economica. Avete idea di quanto si spenda per ogni bambino soltanto per i pannolini? ho fatto un calcolo per voi: considerando circa 35 centesimi di euro a pannolino per cinque pannolini al giorno (eh, cagano un sacco i neonati, vuoi che non lo sappia?) per diciamo 2 anni, vuol dire esattamente 1.277, 5 euro. A bambino. 
Vero che qui finora uno solo ne potevano avere, ma comunque è una bella cifretta. Ti ci compri un paio di IPhone6, per dire.

Comunque questa cosa che i cinesi non usano i pannolini è una faccenda seria.
Per noi è una gran fortuna. Intendo per noi “umanità intera”. 
Provate a pensare se li usassero… non solo non avremmo materiale fotografico di chiappette che escono dai pantaloni, che fa molto “wild China”, ma dal momento che la Cina è la nazione più popolosa al mondo saremmo sommersi di pannolini usati, interi silos di bombe chimiche, montagne di merde sigillate, un impatto ambientale devastante, non so se mi spiego.
Quindi, fiùùùùù.

Il problema è che poi a questi pargoli nappy free gli scappa. E non è che i cinesi si facciano molti problemi, sul dove fargliela fare. Rimane negli annali della Delta Airlines la vicenda di quelli che hanno lasciato che l’amato erede unico defecasse sul sedile dell’aereo, coperto pietosamente da un foglio di giornale, con buona pace asfissia dei vicini; ma anche in situazioni meno critiche (leggi: meno pressurizzate) la cosa potrebbe creare qualche fastidio, se proprio vogliamo escludere l’imbarazzo (ma capita anche a voi? di provare imbarazzo di fronte a un gesto di cui non siete minimamente responsabili? che dovrebbe imbarazzare chi lo fa, la verità).
Comunque.
Capita per esempio che li vedi fare pipì ai bordi della strada (il vizio per altro rimane anche in età adulta, ma questo succede ai maschi di tutto il mondo, pare). Ma pure tra le macchine del parcheggio, in mezzo alla confusione delle biciclette accatastate, sul pavimento liscio e lucido della stazione o del centro commerciale, proprio lì in mezzo, per non parlare dei parchi e delle aiuole. Insomma, quando scappa scappa, e se fino a due/tre anni i bambini non hanno il controllo degli sfinteri non è mica colpa di nessuno (questa cosa del “controllo degli sfinteri” - va’ che terminologia scientifica - l’ho sentita per la prima volta dalle maestre dell’asilo, pare che fosse un requisito essenziale per accedere alla scuola materna).

Ma un’altra cosa curiosa è che non gli mettono nemmeno le mutande. Voglio dire, un minimo servirebbero, se non altro per evidenti motivi d’igiene: questi culi nudi seduti per terra, appoggiati ovunque, non rischiano di prendersi qualche infezione? Quando ancora non esistevano i pannolini, nel mondo occidentale dico, si usavano delle bende, no? Le fasce, si chiamavano.

Ma quello che mi ha fatto pensare alla doverosa irrinunciabilità delle mutande, mentre ero seduta in metropolitana stretta tra le mie figlie e una giovane donna cinese con in braccio una bimbetta di sei mesi al massimo che improvvisamente schizzava pipì come una fontana rinascimentale, è che servono di contenimento, ecco. 

Che la pipì dei pargoli sarà anche cosa santa, eh, per carità, ma la pisciata sulla gamba non è piacevole, specie se la gamba è la tua.

mercoledì 24 agosto 2016

Welcome back

L’aria pesante di umidità ti si appiccica addosso, ti entra nel naso e nella bocca, ne senti l’odore, ti toglie il respiro. Ci hai mai pensato? che l’aria possa toglierti il respiro? Ci impieghi un po’ prima di renderti conto che non è un momento, una sensazione passeggera, una specie di casco integrale che puoi toglierti di dosso.

È il suo modo di accoglierti. Shanghai d’agosto. Umidità 85%, temperatura 35 gradi (percepiti 42), cielo denso, spesso, grigio.
Ci infiliamo nel traffico stipati dentro un taxi, dormo tutto il viaggio di un sonno scomodo, la schiena storta, le gambe intorpidite.

A casa le piante sono morte. Stecchite, secche come solo le piante morte sanno essere. 

Ma sulla porta c’è un pacchetto con dentro un vestito di Michal che lei pensava sarebbe stato meglio a me, sul cellulare è arrivato un messaggio dell’amica Ale e in casa c’è l’aria condizionata, e tutto questo aiuta parecchio nella conversione dell’umore. 

Bentornata, Wonder.

giovedì 2 giugno 2016

Il dispaccio

L’estate del 1946 era appena agli inizi, e finalmente, dopo lunghi giorni di attesa, Marie era riuscita a farsi mandare in villa i tre bauli di indumenti e biancheria necessari per affrontare i successivi tre mesi di villeggiatura, o almeno questo era quello che pensava. Erano da poco passate le otto, la rugiada bagnava l’erba tenera e l’aria ancora fresca e tersa del mattino disegnava i contorni netti del parco. 
L’auto con l’attendente aveva appena varcato il cancello e stava percorrendo la strada sterrata, e Marie, scostata la tenda della camera da letto al primo piano, la seguiva con lo sguardo cercando di scorgere all’interno della vettura il viso familiare del giovane militare. L’auto svoltò sulla curva, e sulla lunga fiancata nera e lucida lampeggiò il riflesso di un raggio di sole. Il bagliore l'accecò per un attimo, ma le permise comunque di distinguere sul sedile posteriore un uomo in abiti civili. Dopo aver lasciato vagare lo sguardo sul parco e sulla villa, lo sconosciuto aveva fissato con insistenza la sua figura, che si stagliava netta nel vano della finestra. 
Ebbe un sussulto. I capelli neri, ancora scarmigliati, le coprivano parte del viso e la vestaglia di seta azzurra lunga fino alle caviglie era stretta da una fascia che sottolineava la vita snella e il seno alto. La donna lasciò andare la tenda e si ritrasse, stupita e perplessa per quella visita inaspettata. 
Corrugò la fronte. Non era abituata a ricevere persone senza esserne preventivamente informata. D'altra parte, riteneva assolutamente ineducato e scortese negare la visita a qualcuno senza sapere prima chi fosse e cosa volesse. E a quell'ora del mattino doveva essere urgente, quanto meno.
Tuttavia si trovava ancora in desabillé, e il disappunto per non essere preparata all'incontro prevalse sulla curiosità.
Rimase ferma per pochi attimi, poi chiamò la domestica suonando il campanello d’argento.
– Forse la Signora… – accennò la ragazza, ma le sue parole rimasero sospese quando lo sguardo severo della donna troncò ogni possibile insinuazione da parte della domestica. Il fatto che il marito fosse assente non le aveva mai impedito di ricevere uomini in casa, e non si era mai preoccupata dell’impressione che avrebbero potuto suscitare in chicchessia le visite maschili che riceveva con una certa regolarità, e in special modo nella servitù, dalla quale pretendeva assoluto rispetto e riservatezza. 
La cameriera stava per lasciare la stanza, desolata per il tacito rimprovero della padrona, ma fu fermata dalla sua voce addolcita. 
Arrivata alla soglia dei quarant'anni, Marie era capace di mescolare affabilità e autorità con una tale straordinaria efficacia che nessuno aveva mai tenuto rancore alla donna per i suoi rimproveri, né aveva mai provato sentimenti che non fossero almeno di servizievole e a volte affettuosa sollecitudine.
– Mi vorresti preparare l’abito color crema, Bettina? Credo che dovrò far aspettare questa persona. Per favore, falla intanto accomodare nel salotto rosa, finché non sarò presentabile… 
“Ci vorrà un po’”, aggiunse tra sé, sedendosi sulla poltroncina di fronte alla toeletta e notando nella specchiera le ombre scure che cerchiavano gli occhi azzurri dalle lunghe ciglia nere, come succedeva ogni mattina da ormai quasi quattro settimane. 

Quando la donna fece il suo ingresso nel salotto, silenziosamente, poco meno di un’ora dopo, la stanza era illuminata dalla luce calda del sole soffusa dalle tende chiare, leggere abbastanza da lasciar intravvedere le chiome verdi dei tigli e del noce oltre il prato. I fiori di lillà nel grande cachepot di ceramica dipinta mandavano un profumo intenso, e il ragazzo, intento a guardare i titoli di alcuni libri lasciati sul tavolino, la testa reclinata per favorire la lettura della costa, non si accorse della sua presenza. Marie, i capelli tenuti fermi da una fascia ricamata, avvolta nell’abito color crema che evidenziava la carnagione chiara, ebbe modo di osservarlo, prima di richiamarne l’attenzione con un colpetto di tosse. 
– Credo che la Sua presenza qui richieda una spiegazione, non trova?

Lui le sorrise di un sorriso forzato, poi fece un inchino e si avvicinò a Marie, che questa volta faticò a celare il turbamento. La lettera che l’uomo le porgeva aveva l’indirizzo scritto a mano, e il suo nome sulla busta era vergato con una scrittura piccola e regolare, nella quale riconobbe immediatamente la grafia del marito.
Da un lato, la cosa la tranquillizzò. Quest’uomo era stato mandato da suo marito, dunque. Come aveva fatto a non pensarci? Era arrivato in macchina con l’attendente, che di certo non si sarebbe mai permesso la libertà di accompagnare uno sconosciuto alla villa.
Marie si avvicinò allo scrittoio, prese un tagliacarte e aprì la busta, volgendosi verso la finestra nel timore che il suo viso potesse tradire i suoi pensieri, poi si scostò in favore di luce, lanciando di sottecchi un’occhiata al giovane che la fissava immobile.

Nella lettera, che, contrariamente alle missive cui il marito l’aveva abituata, era piuttosto asciutta, il re la informava che l'Italia era diventata una Repubblica, e le intimava di abbandonare immediatamente la villa e di recarsi entro il giorno successivo a Cascais, dove l'avrebbe raggiunta. Il tono della missiva non ammetteva repliche.
Il cuore della regina sembrò fermarsi. Esilio, era questo che il dispaccio le intimava. Di colpo, tutto sparì intorno: il ragazzo, i fiori sul tavolo, il sole nel cielo che quel giorno era più azzurro che mai. 
L'Italia, la sua Italia, quell'Italia che lei stessa aveva voluto più consapevole, per cui aveva sperato un futuro di libertà, non la voleva più. Si sentì mancare. Con difficoltà arrivò alla poltrona, si sedette e aspettò che lo stordimento passasse. Il Paese che aveva eletto come sua patria, in cui fin da bambina era stata costretta a vivere e che alla fine aveva imparato ad amare, aveva finalmente trovato il coraggio di liberarsi di quella monarchia ottusa.


Ripiegò con cura il dispaccio, poi alzò lo sguardo verso il giovane, che era rimasto immobile. Sapeva già, lui? Certo, tutta l'Italia sapeva. Ma in fondo, che importanza aveva? Chiuse gli occhi, e, mentre le lacrime le rigavano il viso, sorrise.

martedì 10 maggio 2016

Un mese da Pyongyang

È passato un mese, e mi sembra un’eternità. 

E di quel viaggio mi resta il ricordo di un mucchio di risate, di un pulmino sgangherato, di mani tese a salutare, di cibo in ciotole dorate, di donne che sembrano danzare nei vestiti colorati, di biciclette nella nebbia, di canzoni a squarciagola, di un vento freddo sulle montagne, di notti buie senza stelle, di sonni scomodi e brevi, di un’atmosfera da gita delle medie, piena di elettricità, di noi che stiamo insieme senza telefono, senza email, senza connessione e per questo davvero uniti, vicini, veri, vivi di una vita immediata, entusiasta, senza filtri, come eravamo quando avevamo quindici anni.

Mi resta il ricordo di una sensazione di unicità dentro lo stadio May Day, in mezzo a mille altre persone, di libertà mentre corro e i bambini mi tendono le mani, del caldo di una giornata di sole, della stanchezza nelle gambe, di alberi fioriti lungo la strada, di un crampo che sento arrivare ma che non voglio subire, della fatica che sembra non finire mai ma che poi finisce sulla linea dell’arrivo.

E mi restano le foto, un sacco di foto, perché la mia memoria ha dei buchi, alle volte, e sono convinta che fermare ogni attimo in uno scatto sia un modo bellissimo per non perdere le immagini, e anche i pensieri e le sensazioni e le emozioni legate a un momento.


È quasi l’alba, e fuori una nebbia umida copre un sole ancora arancione. Fa freddo e tutto sembra grigio, e ho una stanchezza addosso che martella nelle tempie. 
Per arrivare a Panmunjom, la zona demilitarizzata di due chilometri quadrati al confine con la Corea del Sud, ci vogliono tre ore.
Dopo una notte insonne, anch’io mi addormento, di un sonno scomodo, scosso di buche. Quando all’improvviso mi sveglio, il paesaggio mi rapisce.  Stiamo attraversando una campagna bellissima e seria, a tratti triste, una terra rigata dagli aratri trainati da buoi, punteggiata di alberi fioriti e di braccianti piegati dalla fatica e da un vento freddo e insistente che vorrebbe portarsi via tutto, anche i pensieri, anche i sogni, trattenuti con ostinazione dalle stentate barriere di paglia con cui si proteggono i raccolti. Sulla strada dritta e deserta sbucano contadini che camminano, improvvisi e soli come i cespugli gialli di forsizia, sembra che vengano dal nulla e che verso il nulla vadano con rassegnata tranquillità. 
Eppure ho l’impressione che ci sia della poesia nel paesaggio spoglio, nella lunghezza dell’orizzonte, nell’alternarsi di pianura e montagna, nell’improvviso apparire di un gregge di pecore e di un ragazzino con un bastone, nelle strade bianche e dritte che spariscono nella nebbia, nello scorrere lento di un fiume o nel pedalare stanco delle biciclette impolverate.

Una poesia che fatica a cancellarsi anche quando ci mettono in fila e pretendono serietà e contegno mentre oltrepassiamo il muro che delimita la zona di confine.
I soldati sono immobili nelle loro divise verdi, rigidi, dritti come fusi, le mostrine gialle e rosse, gli elmetti con la stella rossa al centro, disposti a quadrato appena al limite di un muretto basso oltre il quale inizia la Corea del sud.
Anche oltre il muretto, poco più alto di un marciapiede, ci sono dei soldati. Hanno divise blu notte con delle righe bianche sulle maniche e sui pantaloni, bottoni dorati che brillano al sole, elmetti blu con una scritta bianca, occhiali da sole. Stanno anche loro immobili, le gambe larghe, le braccia lungo i fianchi. Ma sembrano meno nervosi, meno rigidi. 
Altri soldati in tuta mimetica si avvicinano, parlottano, poi due di loro si mettono in posa per una foto, uno appoggia il braccio sulla spalla dell’altro. Posso immaginare le loro battute, i loro sorrisi, anche se da qui, da lontano, non si sente niente, solo attraverso il lungo obiettivo della mia macchina fotografica posso vedere il sorriso del soldato, non i suoi occhi coperti dal berretto, gli occhiali da sole appoggiati alla tesa, la cover del cellulare con la bandiera americana.

Ecco, penso, sta tutta qui la differenza.
Sta in quel cellulare, che in Corea del Nord quasi nessuno può permettersi. Sta nei sorrisi dei soldati, nei gesti di amicizia cameratesca, negli occhiali da sole che schermano gli sguardi, nell’eleganza di quelle divise blu che esaltano la tristezza di queste, verde marcio, verde spento, e non posso fare a meno di associare quei colori alla vita delle persone, ai loro gesti, ai loro pensieri.

Il ritorno è immerso nel silenzio addormentato pesante di stanchezza, ma io non riesco a dormire. Guardo il sole giallo, poi arancione, sparire dietro l’orizzonte liscio, il cielo diventare nero a poco a poco. Le torce dei contadini che tornano dai campi sono come lucciole ai bordi della strada.

Pyongyang è vasta, di un’ampiezza esagerata e vuota (vuota di macchine, di persone, di animali, di cartelloni), quasi surreale. 
Non so cosa mi aspettavo, a dire il vero, ma quello che ho visto mi sembra, nel ricordo, ricoperto di una patina grigia, come se non esistessero i colori. 
Grattacieli, palazzi, monumenti, strade, perfino i giardini sembrano sbiaditi, come in una vecchia foto in bianco e nero.
Non ci sono vetrine, luci, pubblicità, anche la propaganda è limitata ad alcune rare strutture di cemento costruite apposta per mostrare visi felici di bambini, soldati armati, paesaggi idilliaci di montagna, sorrisi di denti bianchissimi sulle facce bonarie dell’eterno presidente.

Le mastodontiche figure di Kim Il Sung e Kim Jon Il stanno immobili nel bronzo denso sulla collina Mansu, ai loro piedi mazzi di fiori colorati lasciati da donne che ruotano nei vestiti tradizionali come bambole ballerine.
Anche noi facciamo lo stesso, compriamo i fiori e li portiamo alle statue, facciamo l’inchino e la foto di rito. 
Una bambina sta disegnando seduta sulla pietra di un giardinetto, sembra lei stessa la figura di un quadro.

L’enorme museo della guerra è un monumento all’ostentazione di forza bellica di un tempo passato che sembra volersi ostinatamente incistare nel presente e che risulta tratti sconcertante, a volte quasi ridicola, talora inquietante. Vecchi carrarmati, elicotteri, camionette sequestrati ai nemici, perfino una nave ormeggiata nel canale sono i cimeli di una guerra che sembra allungare ancora la sua ombra. 

E poi la colonna di Juche, 170 metri di pietra, l’arco della riunificazione, il monumento al partito dei lavoratori, l’enorme hotel Ryugyong, l’arco di trionfo, tutti monumenti che con il loro grigiore e con la loro incombenza contribuiscono ad accrescere un senso di pesantezza incolore.
Eppure il cielo è azzurro, l’erba nei giardini è verde, gli alberi sono fioriti di fiori rosa, i bambini hanno cappellini rossi e bianchi e blu e le bambine fiocchi nei capelli e sui vestiti.

È passato un mese, ma sembra un’eternità.
E sarà stato perché eravamo sempre in gruppo, sempre con le guide come fossero gli insegnanti, con l’autista del bus che è diventato uno di noi, ma noi adulti siamo tornati ragazzini, carichi di quella specie di elettricità, dell’irrequietezza emozionante e piena di aspettative e di stupore.

E mi restano, di quel viaggio, un pettorale attaccato al frigo, una calamita a forma di bambola e una bandiera con una stella rossa, che ogni tanto guardo cercando di rivivere l’emozione di quindicenne.

venerdì 26 febbraio 2016

Giorni e conti

Sono passati 100 giorni dall’inizio della scuola.
La Gabbianella deve inventarsi un modo per celebrare degnamente l’evento: scateniamo la fantasia per creare qualcosa che faccia ricordare questi 100 giorni.
Primo pensiero: Ti pareva che non perdano occasione per saltare un giorno di scuola e fare festa.
Secondo pensiero: tocca fare il puttanage (per chi fosse nuovo del posto, dicesi puttanage l’insieme dei lavoretti di varia creatività, diretta derivazione di collage, decupage, assemblage, e un po’ tutte quelle attività che finiscono in -age utili ad intrattenere variamente quanti non sanno cosa fare del loro sterminato tempo libero). 
Allora, brainstorming. Non ci saranno mica solo le perline, la pasta e i mattoncini del lego. Un disegno? banale. Sassolini? non si trovano sassi in tutta Shanghai, e poi il lavoretto diventerebbe un tantino pesante. Un cestino di fiori? 100 fiori, però, se ci vedono quelli della sorveglianza ce li mettono in conto, e poi ora di domani sono già secchi.

mumble mumble…

Abbiamo trovato. 100 chicchi di riso, tutti colorati. Uno per uno, che pare più bello, così si possono fare neri i giorni brutti, gialli quelli di sole, rossi quelli di festa, verdi, viola, blu…
Eccoli qui, i cento chicchi di riso colorati, uno per ogni giorno.

E, guardandoli, mi viene subito da pensare che sono pochissimi. Ci stanno larghissimi, nel palmo della mano. Navigano nella vastità della scatoletta di plastica trasparente e così li spostiamo in un sacchettino di plastica, ma anche lì dentro sono veramente pochi.

E così, quelli sono 100 giorni della vita della Gabbianella. 
In quel mucchietto minuscolo c’è il primo giorno di scuola, c’è la colazione con il pane fresco e la marmellata, la merenda dimenticata sul tavolo, i capricci per le scarpe, i pomeriggi in piscina a fare i tuffi, le mattine seduta sul tappeto a guardare il maestro, la festina di compleanno senza le candeline ma con tanti bambini a cantare in tante lingue, i cuoricini sul vetro del BusEnorme, i giochi con l’ipad, le capriole sul tappeto, le sbucciature sui ginocchi, la nota della nurse, le tue prime frasi in inglese, il tuo primo Award, i salti sulla coccinella gigante, i libri da leggere insieme, Tristan che ti dice I love you in giardino, la sfilata di Halloween, le sere a pulire fagiolini e tagliare pomodori, le corse in monopattino, le ore a giocare col vicino, la mattina con la neve inaspettata, il freddo sulle mani senza guanti, tutti i cuori sui fogli di carta, la tua prima letterina a santa Lucia, la recita di natale, le lanterne di carta, le treccine, le lezioni di nuoto e il costume nuovo, il tatuaggio sulla fronte, le sorpresine a forma di animale, Olivia che ti tira i capelli, il tuo ritratto ad acquarello, le camera words, i baci della buonanotte.

Sembrano tanti, a dirli, cento, e a vederli nei chicchi di riso invece non sono niente, eppure ci sono tantissime cose, dentro, e alcune sono importanti e le porteremo sempre con noi, e molte altre invece le dimenticheremo, o le abbiamo già dimenticate. 
E niente, mi viene da pensare a quella frase che dice don’t count the days, make the days count, e mi sembra che sia vera, anche se è un po’ una frase da frigo, di quelle che uno si sceglie come memorandum ma poi finisce che a guardarle tutte le mattine non ci fai più caso, e perde di senso.


E poi però penso che contandoli, i giorni, anche all’indietro, i giorni della tua vita che puoi mettere in una manciata di chicchi di riso che tutti insieme non riempiranno nemmeno una ciotolina, ci trovi delle emozioni che ti eri dimenticata, delle sensazioni, delle immagini, delle idee, degli amici, degli amori, insomma un mucchio di cose tue che fanno sì che quei giorni contino, uno alla volta, uno dietro l’altro. A centinaia.

giovedì 18 febbraio 2016

Loviu

E ti guardo, tu che stai diventando grande anche se sei sempre la più piccola, che hai due ciuffi di capelli sugli occhi e ci guardi attraverso, come da una finestra, che ridi di una risata contagiosa, che ti metti in posa per le foto con quelle due dita aperte come i cinesi, che stai cercando di trovare il tuo spazio tra le due sorelle e sgomiti un po', che gridi per far sentire la tua voce. Che ogni giorno mi disegni dei cuori colorati, che mi fai le dediche sui foglietti nella tua scrittura sbilenca, che mi abbracci all'improvviso guardandomi con quegli occhioni tondi, che non sopporti quando ti sgrido perché non vuoi deludermi, che racconti sempre la stessa barzelletta e io rido sempre, e mi fai sempre lo stesso indovinello, e quando indovino tu ti metti a ridere.

Tu che sprofondi nel sedile del BusEnorme e guardi fuori con aria triste ma poi mi sorridi e disegni un cuore sul vetro, che ti commuovi a guardare i cartoni animati e le vecchie fotografie, che salti sul divano e canti le canzoni inventandoti le parole. Tu che non riesci a stare arrabbiata dieci minuti, che litighi in continuazione con chi ami davvero, che te ne stai ore a giocare da sola, che guardi le istruzioni del lego e costruisci aerei e elicotteri e astronavi, che non ti importa di avere le magliette che erano della BB o le scarpe della Nina o i jeans del Gatto o la felpa però vorresti ogni tanto qualcosa di nuovo, di solo tuo, ma ti accontenti di una gomma a forma di koala viola, e anche se hai già una bicicletta rosa, e uno skate-board e un monopattino e i pattini, e quindi di ruote sei piuttosto fornita, vorresti una bicicletta nuova, blu.

Tu che mi dici Ciao mamma io vado fuori, e quando ti guardo stranita, ché quando mai s'è vista una bambina di cinque sei anni uscire da sola, tu mi chiedi Che c'è? come se fosse normale; tu che hai voluto un orologio così puoi controllare a che ora devi venire a casa e l'hai voluto uote resit, così ci puoi andare in piscina, che mangi piatti di pasta in tutte le salse ma neanche una verdura né cotta né cruda, che pensi sempre con la tua testa e devi sbatterla, certe volte, per capire; che hai delle amichette, qui, e anche degli amichetti, ma una sola grande amica, sempre nel tuo cuore.

Tu, piccola mia, stai diventando grande, e non basterà metterti le forcine per tenere su quei ciuffi di capelli, perché il tuo sguardo sarà sempre libero, come il tuo pensiero, come il tuo cuore.

venerdì 12 febbraio 2016

Impulsività e ripensamenti

Capita, certe volte, che le cose succedano senza che siano accuratamente pianificate, senza che siano frutto di una scelta consapevole e meditata. Capita che alcune risposte a certe domande poste all’improvviso non siano ragionate, ma dettate invece da una vocina interiore che non tiene conto delle conseguenze pratiche di quella risposta. E non è che puoi sempre stare lì a controllare ogni minima intonazione, specie se di carattere sei tendenzialmente impulsivo. Ecco, diciamo poi che l’impulsività non aiuta molto, nelle scelte ponderate.
Ma tant’è, una volta che hai parlato non ti puoi rimangiare le parole. Al limite, puoi provare a rettificare il tiro, cercare di stemperare l’assertività decisa che ti è uscita non sai da dove in un monosillabo che non ha nulla di equivocabile, di fatto. E poi comunque non è che puoi infiorettare di molto un monosillabo.

E quindi, ho letto poi che il mio oroscopo cinese dell’anno della scimmia mi spinge a cambiamenti decisi, e quindi sarà stata la scimmia a parlare al mio posto, quella che tutti abbiamo appollaiata su una spalla, chi tutti i giorni, chi a giorni alterni, chi più giocherellona chi più fracassapalle. Io di solito ce l’ho fracassapalle, per dire, a presenza decisamente costante.

E niente, è successo che alla apparente innocua domanda di Stanley, che da quando siamo reloaded ha sostituito Bono, per intenderci, (chi non avesse idea di chi sia Bono  può guardare qui), la Wonder, forse distratta dalla scimmia fracassapalle o forse nel tentativo di tacitare quella vocina stridula che certe scimmie tirano fuori quando si sentono trascurate, ha risposto , senza ripensamenti, senza tentennamenti.
E quindi Stanley ha preso le forbici e ha cominciato a tagliare, anche lui senza tentennamenti. Perché la domanda era Li devi tagliare? sottinteso i capelli, ché da un parrucchiere, per quanto cinese, uno si aspetta che di quelli intenda occuparsi. E ha tagliato, tagliuzzato, sfoltito, finché anche la scimmia sulla spalla si è risvegliata dallo stordimento causato dalla risposta decisa della Wonder e ha detto Vabbè, anche basta, dai.

Il nuovo look ha riscosso un discreto successo, se si escludono gli integralisti cinesi che non vedono di buon occhio tagli di qualsiasi natura durante il capodanno, e Gatto Selvaggio che, appena ha messo gli occhi sulla Wonder le ha detto, con una impulsività senza filtri, Tu non mi piaci così, non sembri la mia mamma.

Vabbè, lì per lì non è che sia rimasta contenta. Direi che un di merda rende piuttosto bene, la verità. Ma me ne son fatta una ragione, eh. Ho pensato che sarebbero bastati pochi giorni perché il Gatto si abituasse a vedermi con i capelli corti, ecco.

E in effetti, dopo qualche giorno, mentre ero in cucina a preparare il caffè, in camicia e un tantino scarmigliata, il Gatto mi ha guardato, inclinando la testa come fa di solito quando deve dire una cosa e non sa bene quali parole scegliere, e mi ha detto Sai, adesso cominci un po’ a piacermi, con i capelli così. Sei più buona. Forse hai tagliato via la parte cattiva
Mi ha abbracciato stretta e, senza aspettare un bacio, è scappata via.

sabato 6 febbraio 2016

Facciamo festa. Il capodanno cinese alla moda dei cinesi

Per la festa di primavera, è vero, ci sono un sacco di tabù.
E quindi, con tutte le cose che non si possono fare, alla fine cosa fanno, i cinesi, durante il capodanno cinese?

In verità fanno un po’ quello che facciamo tutti durante le feste. 
Tipo che attaccano decorazioni rosse in casa e fuori casa, lanterne o lunghe sequenze di pesci di stoffa o nodi impossibili o cartelli con scritte dorate. Quelli sulla porta spesso sono caratteri che significano fortuna e primavera, che di solito vengono appesi al contrario, perché la parola che significa a rovescio (dao) si pronuncia come la parola che significa arrivare, quindi fortuna e primavera arrivano di sicuro alla tua porta. 

Si comprano cibi particolari come il Nian Gao, una specie di tortino di riso, Gua Zi, semi di melone che siccome sono tanti portano fortuna, un po’ come le nostre lenticchie, e tanto, tantissimo pesce in tutte le forme, anche finto, da appendere, perché Yu, che significa pesce, si pronuncia come Yu, che significa abbondanza; la quantità di pesce che si consuma durante questa festa è inimmaginabile. 

Poi si mangia tutti insieme il giorno della festa (classico cenone), si gioca a mahjong (fate finta che sia la tombola), si guarda in TV il gran gala di primavera (con due tizi tipo Amadeus e Papaleo, solo che qui evitano accuratamente dal dire qualcosa di sgradito sennò si ritrovano deportati in Siberia), si regalano Hong Bao, cioè buste rosse piene di soldi (occhio a non dare cifre con dentro il 4 che porta sfortuna), si va a vedere il festival delle lanterne quando le strade sono tempestate di lanterne rosse che non vedi più il cielo, si guardano film romantici a lieto fine (quelli con star come Maggie Chung, Jackie Chan e Stephen Chow vanno alla grande), si fa visita ai parenti e si fanno i fuochi d’artificio.

Ora, riguardo a queste due ultime attività, quest’anno ci sono delle novità.

Primo, a Shanghai, dal primo gennaio 2016, è vietato fare fuochi d’artificio. O meglio, è vietato vendere e acquistare fuochi d'artificio illegali, e cioè a dire quasi tutti. Oltre a provocare incidenti gravi (per cui poi tocca andare in ospedale e l’ospedale è tabù), e talvolta purtroppo anche mortali, il consumo indiscriminato di fuochi d'artificio fa anche aumentare incredibilmente i valori di inquinamento (in poche ore si passa da 150 a 800 pm 2.5).
Questo provvedimento, che riduce a circa 700 i venditori autorizzati, sottoposti a stretti controlli sulla qualità dei prodotti, rischia d'altra parte di snaturare una delle più radicate tradizioni della festa, e cioè scacciare a suon di fuochi e petardi gli spiriti maligni, nella fattispecie quel mitico Nian con testa di leone e corpo di bue che ha terrorizzato per millenni l'immaginario collettivo cinese.
Come conseguenza immediata, non si vedono più in giro banchetti ambulanti con ogni tipo di esplosivo, rimpiazzati da carretti con decorazioni rosse.
Ma niente paura, i cinesi si sono già attrezzati. Pare che ci saranno i fuochi fake, elettronici, ossia luci colorate proiettate sui muri dei palazzi, e mortaretti finti, in pratica rumori registrati.
La cosa, non lo nego, mette un tantino di tristezza: se l’inquinamento è davvero la ragione principale, mi pare che sarebbe più utile adottare seriamente i protocolli (non so, quelli di Kioto per esempio?) durante tutto l’anno, anziché impedire i fuochi per una notte.
Comunque, confidiamo nel fatto che i cinesi, tendenzialmente, se ne fregano delle regole.

Per quanto riguarda le visite ai parenti, la Cina si prepara, al solito, a una migrazione di massa. Niente e nessuno impedirà di raggiungere i propri cari al paesello. E infatti due giorni fa, a causa dei ritardi sui treni dovuti alla neve, circa trentamila persone sono rimaste bloccate nella stazione di HongQiao. La fila arrivava fin davanti a casa mia, tanto che per un attimo ho pensato che davvero ci fosse una ingente mobilitazione per protestare contro il mio stato di ragazza madre. Comunque.
Anche una attività apparentemente innocua come andare a trovare i parenti potrebbe creare un certo imbarazzo, per esempio in chi non ha guadagnato abbastanza da mettere nella hongbao una somma a tre zeri per far sapere ai congiunti come si vive bene nella metropoli, nel qual caso si può ovviare riempiendo la busta di noccioline, per quanto la cosa risulti senza dubbio meno prestigiosa. 
Un'altra categoria potenzialmente in difficoltà sono i single (considerati poveri sfigati come i disoccupati, specie le ragazze). 

Ma qui viene in aiuto l’amico di sempre, quello a cui ti rivolgi per avere qualsiasi cosa tu possa desiderare, in qualsiasi momento, ovunque tu voglia: TaoBao. Vi ho già parlato di Taobao, vero? È stato in occasione di un'altra festa
Comunque, TaoBao è il sito web.
Nella sezione “Noleggio ragazzi” si trovano varie soluzioni, con foto e dettagli personali, a partire da 500 Yuan al giorno. Non so come possa essere la versione più economica, ma nel prezzo sono compresi gli abbracci e un bacio sulla guancia. Poi chissà, magari da cosa nasce cosa…

giovedì 4 febbraio 2016

Xin nian hao! Ovvero cosa non fare durante il capodanno cinese.

Arriva l’anno della scimmia, con la sua coda lunga e la faccetta fintamente simpatica.

Sono l’unica che trova che la scimmia sia un animale detestabile? con quel suo fare svelto e curioso, con quelle zampette che frugano dappertutto, i denti aguzzi e gli occhi cattivi?
A me le scimmie mi mettono un po’ di ansia. Le vedi lì sedute, tranquille a rosicchiarsi un torsolo di mela o a cercarsi le pulci, ma è tutta facciata. 
In verità sono subdole, ti vengono vicino con l’aria innocua e poi ti strappano di mano la merenda e se la vanno a mangiare sul ramo più alto, guardandoti come se fossi un idiota. E ti ci senti, idiota, a farti fregare da una scimmia. La quale, non paga di averti lasciato senza snack, si incazza anche se la guardi male e appena trova l’occasione ti piscia in testa ridendo con quella risata stridula. 
Sei fortunato se non ti arriva di peggio.

Ma insomma, anche la scimmia ci tocca ogni dodici anni.

Il capodanno è la più importante delle festività cinesi. Per quindici giorni, ogni anno, un sesto della popolazione mondiale festeggia l’arrivo della primavera (valli a capire) in un periodo che cade tra il 21 gennaio e  il 19 febbraio, a seconda della luna. Cioè cade nel giorno della seconda luna nuova dopo il solstizio d’inverno, o se volete nel giorno della prima luna nuova del primo mese del calendario lunare cinese. Facile no?
Comunque, fidiamoci di chi ha fatto i calcoli e festeggiamo l’otto febbraio.

Ma occhio che qui sono superstiziosi, e ci sono delle cose che proprio non si fanno.

Quindi, se volete passare bene questa Chun Jié, attenetevi per quindici giorni a queste regole: 

  1. non piangete, porta sfortuna; 
  2. non rompete i piatti, 
  3. non usate le forbici e 
  4. non prestate denaro, tutte attività che vi renderanno poveri (specie quest’ultima); 
  5. non uccidete animali che non è carino; 
  6. non vestitevi di bianco né di nero, usate invece il rosso; 
  7. evitate di andare negli ospedali (e i vostri congiunti moribondi… amen).
  8. non preparate il porridge, porta povertà (ma poi, chi è che mangerebbe porridge a una festa? bleah)
  9. non lavatevi i capelli, porta sfortuna (andate dal parrucchiere qualche giorno prima, via)
  10. non lavate i vestiti, lavare in generale porta via la buona sorte (magari l’ascella potete sciacquarvela, su, che sennò se ne vanno pure gli amici)
  11. non gettate la spazzatura almeno fino al quinto giorno della festa
  12. anche spazzare porta via la buona sorte: bene va’, così siamo esentati dal fare le faccende domestiche. D’altro canto, se non volete vivere in una porcilaia, dovete pulire bene tutto prima, e non sto a dirvi cosa vi toccherà dopo.
  13. non parlare di argomenti sfigati, tipo disoccupazione, fame nel mondo, infelicità… passatevela allegra, insomma.
  14. non lavorate a maglia, anche quello impoverisce. Donne che sferruzzate a tutte le ore, siete avvertite.
[continua...]

mercoledì 3 febbraio 2016

Come occupare il tempo libero in una vacanza d'inverno a Shanghai

E siamo qui, alla fine, dentro questo turbinio da fine dell’anno cinese.

Le caprette ti fanno ciao, i pupazzetti cornuti spariscono dalla circolazione e l’universo mondo è ricoperto di scimmie e banane: vetrine, scaffali, ristoranti, maglie, tazze, lanterne, vasi, pigiami, buste rosse, anelli... ogni oggetto di vita quotidiana viene immancabilmente timbrato da scimmiette felici. Perfino le mutande, giuro.

Le tre petunie sono a casa da scuola per le prossime due settimane, l’ingegnere lavora e poi se ne va per un business trip in terre sconosciute, lasciando la Wonder sola a gestire l’adiacenza con le nane; sola davvero, dato che la maggior parte degli amici, qui, abbandona la terra di mezzo durante uno dei periodi più irrimediabilmente caotici e sardinery-style dell’anno cinese.

Ancora non mi spiego come mai nessuno è ancora sceso in piazza per manifestare contro questa evidente destrutturazione della famiglia tradizionale.

Stiamo già facendo programmi dettagliati per evitare di restare tutto il tempo a giocare a phonics hero e a guardare tutta la serie di Star Wars (se va bene, altrimenti c’è Minecraft, o l’intera piattaforma friv gentilmente segnalata dall’amica Ale in tempi remoti, nonché una serie di tristissimi film per ragazzi con delfini senza coda) e soprattutto per evitare che la Wonder, già innervosita dallo stand-by forzato al suo allenamento settimanale, scleri definitivamente.

Siccome fuori fa un freddo polare (quarant’anni che non gelava così, per dire) sono previsti, più o meno nell’ordine: 

- pomeriggio al cinema, a vedere Alvin and the chipmunks; 
- pomeriggio al jump360, che già il nome dovrebbe farvi intuire essere un posto dove i bambini si stremano saltando sui tappeti elastici mentre i genitori li guardano in attesa che si fracassino il cranio sbattendo l’uno contro l’altro o si rompano un braccio cadendo rovinosamente dopo un triplo salto carpiato all’indietro; comunque, siccome pare si tratti dell’area gioco indoor più grande del mondo, almeno una volta sarà da andarci, anche solo per sfoggiare un’aria di superiorità quando qualcuno ti chiede se ci sei mai stata;
giornata al museo di storia naturale, pare che sia imperdibile; 
- giornata alla fabbrica di cioccolato, con degustazione, ça va sans dir; 
- pomeriggio al cinema, a vedere Kung fu Panda 3 (lo so, mi ripeto)
- pomeriggio al climbing space
- giornata al museo d’arte moderna

e arriviamo a sei giorni di copertura. 

Aiutatemi.

lunedì 25 gennaio 2016

Strategie antifreddo. Otto soluzioni per sopravvivere al gelo cinese

Meno sette.
Non fatevi fregare da questo cielo blu che sembra di smalto, da questa luce gialla che attraversa l'aria finalmente pulita. 
Fa freddo.
Sentite? Non sentite niente? E infatti, gli uccelli, quelle specie di piccioni con la coda lunga grossi come quaglie che di solito cinguettano tra i rami, non cinguettano, se ne stanno rintanati, batuffoli senza collo e senza voce.
Freddo. E quindi, se c'è freddo, bisogna trovare dei rimedi.

1. Alzate il riscaldamento. Questo, ve lo dico subito, non è un sistema che funziona granché,  ma almeno potete provare. Il fatto è che se avete freddo, freddo inside, non vi servirà a molto scaldare fuori. Quello serve ad aumentare l'inquinamento e, al più, a tenervi caldi quando già siete caldi. E quindi.

2. Statevene sotto il piumino. Guardate fuori, ammirate la luce che il sole spande nella stanza attraverso le tende, accarezzate un fugace pensiero di come sarebbe bello passeggiare fuori schiacciando foglie secche sotto le scarpe e mangiando baozi alla crema, prendete il libro dal comodino e restate lì, a godere del tepore accumulato nella notte che si protrae nella vostra giornata.
Eh, lo so. Non è mica domenica. E se anche fosse domenica, quando mai si può stare a letto a poltrire. Come minimo ti salta sulla pancia il gatto, se ce l'hai, o il cane, o una delle tre nane, o due, o tutte e tre insieme,  tutte sulla tua pancia, e allora non ce la fai più a tenere la pipì e ti tocca alzarti, e ciao.

3. Stirate. Va' che è un gran consiglio, questo. All'inizio pare di no, ma poi, dopo cinque federe, due lenzuola, tre asciugamani di lino, otto magliette e due gonnelline, siete tutti circondati dai vapori e vi siete scaldati  Quando mai avresti pensato di benedire il tuo Rowenta. Sarete anche piuttosto soddisfatti di aver contribuito ad abbassare la montagna accumulata nell'armadio, e siccome è tutto una questione di testa, ora siete pronti anche a uscire.

4. Passare l'aspirapolvere è un'altra attività che riattiva la circolazione, e se non bastasse ci si aggiunge la soddisfazione di risucchiare le varie carabattole che vi ritrovate sempre tra i piedi senza avere il coraggio di buttarle, perché quella gommina piace tanto alla Gabbianella, quei pezzetti di carta colorata li usa il Gatto per il collage, i fili di lana chissà mai che possano servire, ssllluuuurp! tutto risucchiato. Aò, mica cotiche.

5. Fatevi una corsa. Vestitevi bene, eh, tuta termica, guanti, berretto, musica nelle orecchie, e via. Quando arrivate in palestra, potete togliere il berretto. Ma che, vi credevate di correre fuori? Siete matti. Comunque, dopo mezz'oretta di corsa sul treadmill i piedi avranno riacquistato sensibilità. Allora toglietevi anche la felpa e correte un altro po', venti minuti diciamo, finché non riacquistate anche l'uso delle mani.
Et voilà, pronti per tornare alla vostra routine.

6. Fatevi una doccia calda. Lo so, non avete nessuna voglia di spogliarvi, la sola idea di togliere un calzino vi terrorizza, ma vi assicuro che è un buon sistema. Lasciate che l'acqua calda vi scotti i piedi, sentitela bollente sulle gambe e sulla schiena, passateci sotto la testa e restate lì, a sentire il rumore dell'acqua che scorre attraverso le orecchie ovattate. Venti minuti dovrebbero bastare, e se non sono sufficienti quelli pensate alla bolletta dell'acqua ché vi vien subito caldo.

6bis. Asciugate i capelli con il phon, temperatura massima. Pettinateli, passateci le dita, continuate a tenerli sotto il phon finché non saranno del tutto asciutti. I capelli sono un ottimo conduttore, riescono a tenere la temperatura per qualche minuto, e comunque, a quel punto, anche il resto del corpo avrà tratto beneficio dall'aria calda.
Non avete i capelli? Non sapete cosa vi perdete. (Però sapete cosa vi siete persi, haha, ho fatto la battuta).

7. Preparatevi una zuppa. Zuppa di cipolle, zuppa di zucca, porri e patate, crema di funghi, pasta e fagioli, pure la pastina in brodo, va'. Mangiatela subito, caldissima, scottatevi un po' la lingua ma sentite che benessere, un calore che si spande a tutte le estremità.
In alternativa, se non è ora di pranzo né ora di cena, fatevi una tisana, un tè oloong, un vin brulé, un whisky doppio malto. Se non vi scaldate, almeno vi verrà un po' da ridere.

8. Fate l'amore. Si chiama riscaldamento per sfregamento, è un sistema assolutamente collaudato che viene usato fin dall'antichità con ottimi risultati. Certo, richiede quanto meno un partner consenziente, e capisco che non tutti dispongano del materiale essenziale. Ma insomma, una soluzione si trova sempre. Gli amici veri si riconoscono nei momenti di difficoltà, no?

E se nessuno di questi rimedi serve a farvi riscaldare un po', mannaggia ragazzi, siete  proprio irrecuperabili.
Come me, più o meno.